Ingeborg Bachmann, Il trentesimo anno, Adelphi, 2006


Ondina
di Paolo Vannini

Nel libro Il trentesimo anno, di Ingeborg Bachmann, occorre fare una distinzione tra il primo racconto e tutti gli altri. Il primo parla della giovinezza. Giovinezza significa presenza di tutte le potenzialità ancora da sviluppare, potenzialità pura nella quale non ci siamo già definiti scegliendo una possibilità di esistere invece di altre. È la dimensione dell’ancora indefinito.
Gli altri racconti invece si svolgono dopo la giovinezza. La soglia è posta a 30 anni, considerata data simbolica del passaggio dalla giovinezza alla maturità. Quando cioè occorre definirsi, darsi un’identità, rispondere finalmente alla domanda: ma io chi sono? Uno dei temi centrali del libro, infatti, è proprio quello dell’identità, la quale significa mettere qualcosa di identico nella propria vita, che non muta, in mezzo al mutare di tutto, e che è ciò che ci individua e ci distingue.
Pico della Mirandola, e sulla sua linea Sartre, dicono che l’uomo si distingue perchè negli altri esseri ciò che sono, ossia la loro essenza, è già stabilita prima che esistano, e quindi in loro l’essenza precede l’esistenza. L’uomo invece è l’unico che prima esiste e poi decide cosa essere, in lui l’esistenza precede l’essenza. Perciò, mentre gli altri esseri sono costretti a essere ciò che è già stabilito prima che siano, ossia non sono liberi, l’uomo invece è un essere libero, è colui che decide se stesso, potendo liberamente elevarsi fino al livello degli angeli o degradarsi a livello dei bruti.
E tuttavia è facile a dirsi ma non a farsi. Non è facile essere se stessi, non è facile essere liberi, perchè viviamo in una società che ci condiziona. Non nasciamo nel nulla ma in un mondo già stabilito, che non abbiamo creato noi, dentro un linguaggio, società, tradizioni, educazione, morale, regole, convenzioni, che ci limitano ponendoci dei confini e trasmettendoci dei valori che vengono da fuori, non da dentro. Il valore per eccellenza che li riassume tutti nel libro è il valore verità, trasmesso dal padre, contro il quale Wildermuth si ribella e contro il quale tutto il libro sostiene che la verità, così come la ragione di fondo e la spiegazione ultima delle cose, sono irraggiungibili. E così come crolla il valore verità, crolla ogni altra certezza a cui gli uomini si appigliano. Non esiste più un appiglio, né nel cielo stellato sopra di noi né in noi.
Ora tutti i personaggi del libro sono mossi da una volontà, che definirei eroica, romantica, di andare al di là del confine, di oltrepassare i limiti, i condizionamenti della società, per essere se stessi in modo incondizionato, assolutamente libero. Questo è il tema di fondo e i racconti sono diverse variazioni di quest’unico tema.
L’uomo che si ribella ai limiti, ai condizionamenti sociali, è colui nel quale il proprio sé non è determinato da altri ma lo crea liberamente lui. È il creatore di se stesso. E l’uomo che riesce a far questo vede il mondo con altri occhi e il mondo cambia, diventa un altro. Chi crea il proprio essere crea anche un nuovo mondo che ha inizio con questa creazione di sé.
E ciò vuol dire liberare la fiera azzurra, ossia una forza, che è in noi, selvaggia, naturale, una fiera appunto, cioè non addomesticata dalle convenzioni sociali,  e però azzurra, ossia, giacchè l’azzurro è il colore della spiritualità, una forza spirituale, di elevata saggezza, non distruttiva ma creativa.
Il punto è però che i personaggi del libro cercano di essere se stessi in modo assolutamente libero, ossia la libertà viene pensata come un assoluto, un tutto, è la libertà della persona che ha rifiutato ogni limite e quindi  non ha limiti e non è condizionata da niente. È uno stato di totale autonomia, indipendenza, assolutezza, e la persona è appunto soluta ab, sciolta da ogni cosa, non dipendente da nulla. Tutto il libro è attraversato da un’ansia di assoluto, bene rappresentata dalla parola tutto.
Ma il problema è che l’assoluto non esiste, tutto ciò che esiste in questo mondo è relativo e mutevole, non c’è in esso l’assoluto come realtà, e dunque il tentativo di raggiungerlo è destinato al fallimento proprio perchè esso, giacchè non esiste, è irraggiungibile.
Eppure c’è un senso in cui la ricerca dell’assoluto può dar luogo non a un fallimento ma un successo, non nel senso di raggiungere una realtà assoluta, che è impossibile, ma nel senso di  mettere come identico, nella propria vita, il tendere ad essere pienamente se stessi, facendo dell’assoluto non una realtà ma un ideale. Proprio da questa tensione viene la nostra crescita, progredire sempre un po’ di più. Non raggiungeremo mai la libertà assoluta e non saremo mai pienamente noi stessi in senso assoluto, ma, tendendo alla libertà assoluta, possiamo essere sempre un po’ più liberi e sempre più vicini al nostro vero sé. Wildermuth non raggiungerà mai la libertà assoluta ma, con quel grido, è un po’ più libero ed è un po’ più se stesso.
Questo tendere è la tensione tra ciò che siamo, condizionati, e ciò che dovremmo essere, liberi, è la tensione tra l’essere e il dover essere. È come se l’uomo fosse abitante di due mondi, immagine bene rappresentata dal racconto di Ondina: il mondo sopra l’acqua, ossia la terra, che rappresenta il finito, la sicurezza, e il mondo sotto l’acqua, ossia il mare, che rappresenta l’infinito, la libertà. Stare solo nel finito, nei limiti, vuol dire essere prigionieri e inautentici, Stare solo nell’infinito, al di là dei limiti, è impossibile e folle. L’uomo libero è un essere anfibio, ossia è colui che sa essere abitante di entrambi i mondi, capace di stabilire una dialettica tra i due, ossia vivere nel finito mantenendo l’amore per l’infinito, nella necessità tendendo alla libertà, nel relativo aspirando all’assoluto. L’uomo è questo anelito alla trascendenza, all’oltrepassamento del limite, e chi perde questo anelito perde la sua umanità e si fa meno che uomo.
Da questo punto di vista il racconto decisivo è quello di Ondina. Ondina è essere femminile marino, rappresenta la forza seduttiva della femminilità nel suo carattere inafferrabile, passionale, irrazionale, ma anche il suo carattere distruttivo e mortifero. Le Ondine seducono ma poi, in modo analogo alle sirene, uccidono. E però questa immagine del femminile è una costruzione maschile, esprime la paura del maschio verso il femminile.
E allora proviamo a mettere in discussione questa immagine, oltrepassando il limite di questa visione del femminile, un limite interno giacchè i limiti sono tutti interni: i condizionamenti esterni diventano efficaci solo quando sono interiorizzati e diventano limiti interni. E proviamo ad aver fiducia nelle parole di Ondina quando  chiama, ossia a lasciarsi andare, tuffarsi nell’acqua, che è ciò che non ha limiti e confini e come tale rappresenta anche l’inconscio, senza temere di esserne fagocitati. Il limite di Hans, cui Ondina si rivolge col suo appassionato e doloroso amore, è che odia l’acqua.
Il racconto di Ondina, l’ultimo, il più bello e il più importante, va considerato a parte. Mentre infatti negli altri racconti, dopo il primo, tutti i personaggi cercano una via di liberazione per tentativi ma non hanno chiaro quale essa sia, Ondina svolge proprio il compito di indicare la via quando dice vieni vieni, non aver paura. Per essere se stessi e vivere davvero ci vuole coraggio, il coraggio di abbandonarsi alle proprie parti più profonde, rappresentate dal mare che è profondo, per esempio abbandonarsi all’amore, a cui invita Ondina. Il richiamo di Ondina è analogo al richiamo della fiera azzurra. Ondina è una ninfa, cioè un essere non addomesticato, come una fiera, e il mare, dove vive Ondina, è azzurro come la fiera che nel libro rappresenta il nocciolo del nostro sè.
Ora tutti i personaggi cercano questa libertà, questo assoluto esser se stessi ribellandosi e lottando contro i condizionamenti della società. A questo punto però la domanda diventa questa: riescono o falliscono? Si può esser tentati di dire che tutti i personaggi falliscono. E tuttavia bisogna notare che tutti oltrepassano un limite, abbattono dei confini, fanno un movimento nella loro vita,
Esempio Wildermuth, con il suo urlo liberatorio, o il protagonista di trentesimo anno, che conclude con la fiducia in se stesso e supera il limite della paura di invecchiare, simbolizzata dal capello bianco. Oppure il protagonista di Tutto, il quale supera il limite che lo divideva dal figlio e può dire: io questo figlio l’ho accettato, e decide di oltrepassare il confine che lo divide dalla moglie. E l’assassino di Pazzi ed assassini, che non si è piegato alle richieste della società la quale voleva che egli uccidesse in guerra e, con la sua provocazione finale ai reduci, azione che gli costa la vita, fa un gesto di libertà opponendosi all’esaltazione retorica della guerra. In A due passi da Gomorra, infine, anche se da ultimo il rapporto tra le due donne non riesce, c’è tuttavia l’oltrepassamento dei limiti convenzionali della fedeltà coniugale e del giudizio sull’omosessualità.
Allora, se si interpreta il successo come raggiungimento della libertà assoluta, l’assoluto come reale, i protagonisti del libro sono dei falliti perchè non lo raggiungono. Ma se si interpreta come un successo il fare della tensione verso l’assoluto la sostanza della propria vita, l’assoluto come ideale, allora tutti riescono, perchè, tendendo a una libertà e a una autenticità totali, pur non raggiungendole, fanno tutti un passo avanti nell’essere non assolutamente liberi ma un po’ più liberi e un po’ più se stessi.



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