Michele Cecchini, Dall’aprile a shantih, Livorno, Erasmo Edizioni, 2010


Quel pasticciaccio brutto avvenuto a Lucca…  
di Giuseppe Panella

Datta. Dayadhvam. Damyata. / Shantih shantih shantih – sono i versi conclusivi di The Waste Land, il capolavoro poetico di Thomas Stearns Eliot del 1922. Shantih indica uno stato di assoluta pace interiore, di appagamento della mente rispetto al turbamento prodotto dai vritti, le onde-pensiero generate dall’avvicendarsi umano delle proiezioni di desiderio, quando esse cessano di agitare gli uomini che riescono a non ascoltare più la loro voce e le loro esigenze. Lo shantih è uno stato totale di negazione del futuro in nome di un qui e ora raggiunto attraverso sforzo concentrazione e riduzione drastica della volontà. Shantih, inoltre, è un termine usato alla conclusione di una upanishad, i testi di carattere filosofico che costituisconola parte conclusiva dei Veda (in tal senso, infatti, è utilizzato da Eliot nel suo poema aurorale).
Ma perché questo termine sanscrito così connotato compare addirittura nel titolo del romanzo di esordio di Michele Cecchini?
Tuttavia, anche l’aprile che costituisceil primo termine di riferimento del tragitto che conduce a shantih viene direttamente da Eliot (Aprile è il più crudele dei mesi… come si legge all’inizio dell’opera). Aprile e shantih sono, dunque, il punto di partenza e il termine di un percorso che attraversa una nuova Terra Desolata: quella situata tra la Parigi del 1750 e la Lucca di fine Novecento (la data è imprecisa ma nel testo non si fa menzione dell’euro quanto delle lire).
La Waste Land di Cecchini è costituita, faute de mieux, da un palazzone in terra lucchese in cui abitano numerose famiglie con storie dal profilo incerto e spesso con motivazioni misteriose e dove avviene un misterioso ratto di bambini nella mattina di un giorno di tarda primavera (probabilmente aprile). Ma la sparizione dei bimbi (come lucchesemente vengono sempre denominati) è precisata dall’antefatto settecentesco in cui altri fanciulli e fanciulle vengono sottratti alle loro famiglie dagli agenti della polizia rele di Luigi XV. Di tali ratti infantili non c’è traccia nella storia di Francia come pure della possibile malattia del Re (la lebbra – malattia che, invece, egli dovrebbe essere in grado di guarire come la scrofola tramite l’imposizione delle mani, come spiegò Marc Bloch in un suo celebre saggio storico, I re taumaturghi del 1924). Probabilmente, la malattia invalidante di Luigi XV vale la piaga che non si cicatrizza mai di Amfortas, il primus inter pares della leggenda di Parsifal e che figura come personaggio sullo sfondo del poema eliotiano (e della sua fonte, From Ritual to Romance di Jessie Weston). I fanciulli e le fanciulle rapiti, con il loro sangue puro e intatto, non contaminato da malattie o dal sesso, dovevano servire a guarire il re che si sarebbe immerso nel loro sangue lustrale per bonificare il proprio corpo malato.
Anche i due “bimbi” scomparsi probabilmente costituiscono il prezzo di un sacrificio necessario a purificare un mondo incapace di ritrovare in se stesso il proprio senso e la propria finalità.
Ma l’impresa letteraria di Cecchini non è soltanto una ritrascrizione del masterpiece eliotiano in termini più vicini alla cultura di fine Novecento o in un ambito nostrale.
Il nume tutelare dello scrittore lucchese, infatti, non è Eliot (cui pure si deve il titolo del romanzo) quanto Carlo Emilio Gadda. Il mistilinguismo marcato del testo, l’utilizzazione contemporanea e multipla di dialetti anche territorialmente distanti tra di loro, la connotazione linguistica dei soggetti affabulanti, la volontà di creare, anzi di immettere il caos all’interno di una situazione che potrebbe risultare armonicamente articolata ma non lo è (e qui probabilmente ha fatto gioco anche La vita. Istruzioni per l’ uso di Georges Perec che si sviluppa in una situazione analoga).
Basterà una citazione da p. 75 del romanzo di Cecchini per dimostrare la filiazione gaddiana (in questo caso dal Primo libro delle favole):
 
«Nel frattempo la Treponzi chiuse con un altro movimento, oscillatorio in alto e in basso delle dita raccolte a grappolo, onde esternare tutto il proprio scetticismo verso le bischerate che le era toccato di sentire. “Macché!”, e fece per congedarsi. “Macché ‘nu cuorno, signora mia!... “ “E dai!... E insiste, eh!... “ e così via finché, tra uno starnazzio e l’altro. Si giunse finalmente a contemplare coloro che fin dall’inizio costituivano l’oggetto precipuo di tutto quel ricostruir di circostanze, accadimenti, occorrenze, orari, eventi collaterali, coincidenze: i due ragazzini, i due innocenti, i due bimbetti, i due scapestrati, i due guagliuncelli, i du’ bamboretti, ‘e due creature, i du’figlioli, i ‘ddue disgrazziati, i doje piccirilli, i ‘ddue monellacci, i dù pischelli, i due mocciosi, insomma coloro che nel parco proprio ‘un c’era verso di vederli e sul pulmino mica erano mai saliti… ».
 
La stessa dimensione di suspence poliziesca con l’arrivo delle forze dell’ordine e con le indagini sembra avvalorare l’ipotesi di una dipendenza dal Pasticciaccio brutto di via Merulana di Gadda (come pure l’apparente mancanza di certezza rispetto all’enunciazione del crimine e la scoperta del possibile colpevole). Quello che a Cecchini interessa (o sembra interessare) di più è la varia umanità che popola il palazzone lucchese, visto come una sorta di luogo speculare all’Italia di oggi e come un microcosmo di varie tristezze e laidume assortito in cui ognuno ha le proprie debolezze i propri errori le proprie manie e manchevolezze da nascondere. – come Eugenia intristita in un appartamento in cui nulla è cambiato (simile in ciò al protagonista irato di La cognizione del dolore) o il maestro elementare Severino Lello morto in fondo a un letto d’ospedale dopo essere stato protagonista di un caso mai chiarito di pedofilia. Anche Guglielmo, giovane nullafacente che passa il tempo a osservare i dettagli apparentemente inutili o insignificanti della propria esistenza:
 
«L’ingranaggio del destino si era inceppato per dedicarsi a lui.proprio a lui ! … Uno squarcio, una lacerazione dell’ordito tale da offrire un barlume di necessità: segnale chiaro, incontrovertibile, che di colpo rafforza o smentisce le congetture così come vanno dipanandosi. Il contingente perde concretezza, assumendo connotati altri: una costellazione di immagini mentali, allegorie, ghirigori., metafore, personificazioni, similitudini, simboli di cui urge la decifrazione. A cui peraltro Guglielmo mai giungeva, se non a posteriori, nel caso in cui fossero gli eventi medesimi a confortare quella specie di premonizioni. Un lombrico che si contorce, una carta da gioco lungo il cammino, lo spegnersi di un lampione: aveva imparato a scorgere e, allo stesso tempo, diffidare di quei segni per nulla espliciti e che, anzi, a ogni significato evocavano anche quello opposto. Come in questo caso : l’evento si era presentato ai suoi occhi come privo di casualità. Dunque richiedeva interpretazione, identificazione, chiave di lettura. Hic et nunc. Quale dunque il senso ultimo? Che era inutile affaticarsi nel tentativo di unire ciò che il destino aveva stabilito di separare? Il distacco, pur tardando, incombeva sul loro rapporto con la stessa urgenza con cui le suole avevano premuto sulla convessità morbida del terreno. Oppure, al contrario, che tutto quel brulichio di pensieri e di immagini preconizzanti un commiato a poco valevano? Il loro amore avrebbe trionfato, finendo per imporsi con una gravità necessaria e incontrovertibile, identica a quella delle suole» (pp. 71-72).
 
L’amore di Guglielmo è tutto per Adele, una ragazza rimasta sfregiata al volto durante un clamoroso incidente automobilistico in seguito al quale ha subito un’operazione che ha comportato quarantadue punti di sutura. L’evento l’ha lasciata turbata e chiusa ai rapporti umani con la sola eccezione di Guglielmo cui ha demandato il compito di annaffiare i propri giacinti, una missione quest’ultima assolta con poca cura ma divenuta il simbolo di una relazione più intima e profonda di cui il vicinato sparla con accanimento. Il palazzone lucchese si rivela così il microcosmo di una vicenda umana che attraversa tutta la storia d’Italia dalla Resistenza in poi – ne è il sintomo inquietante l’avvocato Ersilio Terruzzi, piccolo e incartapecorito lemure che si aggira a passettini per il condominio e poi per la cittadina toscana. Eppure l’uomo ha un passato di militante nella lotta armata contro i Tedeschi e ha salvato la vita a molti renitenti alla leva mandandoli sulle montagne della Lucchesia a cercare scampo dai rastrellamenti dei tedeschi. Inoltre aveva ospitato una staffetta partigiana nell’intercapedine di un mezzanino di un suo appartamento sito nel centro storico di Lucca. Tutti i casigliani lo considerano una sorta di bestia rara che solo per intercessione della sannitica signora Marangoni (già Clelia De Biase) acquista una sorta di fosca grandezza se si pensa al suo passato di militante antifascista.
Il romanzo di Cecchini, allora, grazie ai suoi innesti linguistici forti e alla sua struttura magmatica e non assertiva, lasciata volutamente fluida dal suo autore, si rivela il progetto di una lettura simbolica del destino di una nazione come quella italiana in cui conservazione e mancata apertura verso il mondo altro della diversità si rivelano la cifra di uno sviluppo mancato e di una desolazione sempre crescente. Una terra desolata, infatti…
 


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