Michele Ballerin, Ciņ che siamo, ciņ che vogliamo, Casa editrice Il ponte vecchio, 2009


Ciò che vogliamo, ciò che non vogliamo
di Paolo Vannini

Ciò che siamo, ciò che vogliamo, di Michele Ballerin,Casa editrice Il ponte vecchio, 2009, è un libro eccezionale, e lo considero il testo di riflessione storico politica più importante che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni. Nel corso della lettura e dopo averla conclusa il lettore avverte un senso di apertura e di arricchimento che ha qualcosa di liberatorio.
È in primo luogo un libro eccezionale per quanto riguarda la forma. Scritto in modo elegante e piacevole, è dotato soprattutto di un’immensa chiarezza. Ogni concetto è trattato con cura finché non risulti del tutto trasparente. E si tratta di un grande pregio, non solo perchè il pensiero risulta esaltato da questa chiarezza, ma anche perchè consente a chi legge di capire, e quindi anche di poter ribattere, criticare, discutere. Spesso chi scrive in modo oscuro lo fa o perchè non ha le idee chiare, o per pigrizia o perchè si vuole preventivamente difendere, come dicendo: se nessuno mi capisce nessuno mi può criticare. E magari chi legge pensa che tanta oscurità debba nascondere grande profondità. Inoltre il libro di Ballerin è scritto anche con estrema serietà ed attenzione, argomentando ogni passaggio teorico e così rendendolo mai casuale ma sempre fondato, in un insieme organico ed armonico, dove grande importanza viene sempre attribuita al lettore, che è come preso per mano e condotto tappa per tappa a seguire e capire il percorso teorico che lo scrittore, con una coerenza e una logica implacabili, propone.
Ma poi, e soprattutto, è un libro importante per quanto riguarda il contenuto. Si tratta di un’opera di pensiero, uno dei pochi libri recenti nei quali si ha l’impressione, leggendo, di trovarci di fronte al pensiero. Lo scrittore è indubbiamente dotato di grande attitudine speculativa, filosofica, rivolta a pensare l’essenziale e ad affrontare non i piccoli ma i grandi temi, con una linea di pensiero di scioccante lucidità e con delle proposte precise. È un tentativo potente di pensare in grande, di abbracciare con uno sguardo della mente l’intera storia umana per metterne in evidenza la tendenza di fondo, e per leggere in profondità, alla luce di una propria interpretazione, il senso del nostro tempo.
Risalta subito dal titolo, una intenzionale risposta a Montale, che l’atteggiamento di Ballerin vuol essere positivo, affermativo. Non si tratta di parlare di noi mettendo il non davanti, dicendo solo, negativamente, ciò che non siamo e ciò che non vogliamo; possiamo parlare di noi togliendo quel non, siamo in grado di dire, positivamente, ciò che siamo e ciò che vogliamo. Non siamo limitati a dover negare, abbiamo tutti gli elementi per poter affermare.
E inoltre atteggiamento positivo, da parte di Ballerin, significa anche che la sua riflessione è guidata da un presupposto ottimistico. La storia è interpretazione e la si può guardare con la tendenza a vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Ballerin è portato a mettere in evidenza il bicchiere mezzo pieno, e quindi a pensare per il meglio e non per il peggio, con un’intenzionale volontà di replicare, polemicamente, al pessimismonichilistico, oggi dominante, che vede nella storia nulla di nuovo sotto il sole o solo barbarie, e interpreta il nostro tempo come il dominio incontrastato del nulla. No, il filo della storia umana e il filo della vita dell’uomo è un filo positivo, di evoluzione, di progresso. Dall’età della pietra l’umanità ha fatto conquiste immense e nel nostro tempo ci sono i segni per guardare a un futuro ancora migliore e a una meta buona cui tende il nostro cammino.
Leggere la storia in questo modo significa essere dotati di senso storico. Avere senso storico è valutare ogni momento della storia non in riferimento a un ideale, rispetto al quale il reale, sempre, impallidisce e appare tutto sbagliato, secondo un idealismo che genera un atteggiamento radicale e rivoluzionario il quale vuol cambiar tutto perchè, del presente, tutto disprezza, ma significa piuttosto valutare realisticamente ogni momento storico in rapporto a quelli precedenti e agli aspetti ad esso contemporanei, in modo tale da far emergere gli elementi di progresso e le potenzialità in esso contenute, secondo un realismo che è fonte di atteggiamento riformistico, gradualistico, capace di vedere come la storia migliori a poco a poco, seguendo i suoi tempi, e dove perde di senso la stessa distinzione tra evoluzione e rivoluzione giacchè a questa luce l’evoluzione appare come una rivoluzione lenta e la rivoluzione come un’evoluzione veloce.
Certo che Ballerin non esclude la radicalità. Ma la sua radicalità riguarda i fini, è quella di puntare alla meta alta di un mondo libero, giusto, di pace. E però proprio per raggiungere obiettivi così elevati è necessario essere realisti. Nel realismo infatti sta la potenza mentre conseguenza dell’idealismo radicale è, al contrario, proprio l’impotenza, perchè esso vuole cambiare troppo e troppo in fretta senza che ci siano nella realtà le condizioni per poterlo fare.
A questa visione positiva della storia si accompagna una visione positiva dell’uomo, un’antropologia ottimistica. Alla base un presupposto aristotelico: l’uomo è animale razionale e politico, e a distinguerlo sono appunto razionalità e socievolezza. Ciò che rende diverso l’uomo dall’animale non è, come sostiene Marx, il lavoro, la produzione dei mezzi di sussistenza, cioè l’aspetto economico, ma la ricerca di soluzioni razionali per organizzare e migliorare il proprio vivere insieme, cioè l’aspetto politico. L’uomo è fondamentalmente l’essere che si associa con l’altro uomo e il problema umano fondamentale è quello di rintracciare il modo migliore di vivere in società. L’evoluzione storica si vede infatti non tanto nella celebrata potenza della tecnica, quanto nell’evoluzione delle istituzioni umane, nel progressivo arricchimento della politica. In questo aspetto si evidenzia, più che in ogni altro, cosa sia la civiltà: ricchezza di vita e dialogo, cioè superamento della povertà e violenza della vita in natura. La civiltà è più della natura, ed è diventata essa stessa, del resto, la nostra vera natura.
Ottimismo storico e antropologico, dunque, dove storia e umanità sono strettamente collegate, nel senso che la storia la fa l’uomo, non Dio. E, dell’uomo, la ragione. Ciò che è razionale, logico, finisce per imporsi e si realizza, mentre ciò che è illogico viene spazzato via. La storia è come un fiume che abbatte gli ostacoli che le si oppongono, e trova sempre la sua strada. La storia è storia della ragione, non della ragione individuale ma di quella forza impersonale, appunto la ragione, che però non è trascendente ma si manifesta in ogni persona umana e non esiste fuori dall’uomo. C’è un fondo hegeliano nel punto di vista di Ballerin, come egli stesso, in sostanza, riconosce.
È vero, certamente, che l’uomo, in molte circostanze, e in tanti eventi, spesso tragici, della storia, si comporta in modo del tutto irrazionale. Ma questo innegabile fatto non è per nulla una confutazione della ragione, e non vuol dire che l’uomo sia un essere irrazionale, giacché in questi casi l’uomo fa così perchè è come fosse ubriaco, e ogni ubriacatura, dopo un po’, passa. I grandi eventi di irrazionalità, nella storia, sono come isole, che possono temporaneamente rallentare, ma non riescono affatto a fermare il corso razionale della storia sicché la storia resta, nonostante queste tragiche parentesi, il progressivo dar vittoria a ciò che è ragionevole.
Ora è ragionevole, è logico, che l’uomo voglia essere libero, e perciò la storia è storia del modo in cui l’uomo ha cercato soluzioni razionali per darsi forme sempre più alte di libertà. La storia è l’insieme di avvenimenti coi quali l’uomo diviene sempre più libero, è lo spazio di un’affermazione sempre maggiore della libertà. La storia è storia della ragione e della libertà. È questo il paradigma liberale, la concezione liberale della storia.
Il vertice di tale capacità di trovare soluzioni politiche secondo ragione, allo scopo di espandere la libertà umana, è l’Occidente.
L’Occidente siamo noi, è ciò che noi siamo. Ma cosa siamo noi, e dunque cos’è l’Occidente? È qualcosa di assolutamente unico nella storia del mondo. L’Occidente è il dubbio, lo spirito critico, e la sua terra di origine è la Grecia. Occidente non è termine geografico, esso è là dove c’è lo spirito critico. L’Occidente, cioè il dubbio, lo spirito critico della ragione, si oppone al dogma e alla fede. L’Occidente è il dubbio, il non dogma, il non Occidente è il dogma, il non dubbio. E, nel cammino progressivo dell’umanità, l’Occidente è la locomotiva che guida questo progresso, mentre tutto ciò che non è Occidente è un freno che, pur non potendo fermare, rallenta la marcia della civiltà.
Il prodotto più alto di quella configurazione elevata che è l’Occidente è il diritto. Il dubbio infatti porta a mettere in discussione le proprie certezze e a tener conto di quelle dell’altro, e questa considerazione dell’altro, che è anche relazione, porta a pensare regole che valgano per entrambi, cioè al diritto. Il diritto è l’insieme di regole che organizza la società e rende possibile la coesistenza degli uomini, disciplinando appunto il loro comportamento reciproco. Figlio del diritto è lo stato di diritto, il moderno stato costituzionale, cioè lo stato limitato esso stesso dalle regole e ad esse sottoposto, la sovranità della legge sugli uomini, il non assolutismo.
Ma la più alta forma del diritto è quella liberale, che mette al centro la libertà sulla base dell’idea che la libertà di ognuno finisce dove comincia quella di un altro. La libertà può esistere solo se non è assoluta ed è reale solo avendo un limite. La libertà senza limite è l’anarchia dello stato di natura di Hobbes, dove la guerra di tutti contro tutti non lascia libero nessuno nemmeno di fare un passo.
Ora accogliere il principio del diritto significa mettersi da un punto di vista universale, non solo dell’io ma di tutti, dell’io e del noi, e perciò da un punto di vista etico. Il diritto è etica. Dimensione giuridica e dimensione morale fanno tutt’uno. Ma il diritto è qui diritto razionale, viene dalla ragione la quale indica proprio nel diritto, cioè nella tecnica di convivenza pacifica sottoposta a regole, il modo più ragionevole per gli uomini di vivere insieme. E, dunque, se il diritto è etica, si tratta tuttavia di un’etica razionale, dettata dalla ragione e non dalla fede, e perciò laica, destinata a risolvere il problema principe del nostro tempo, quello di reperire un’etica alternativa a quella cristiana, ormai tramontata, o destinata al tramonto, dopo la morte di Dio. Inevitabile che la terra del dubbio oltrepassasse il dogmatismo della religione e si facesse laica, inevitabile la morte di Dio. Il diritto è un’etica laica, che ha valore universale e quindi assoluto, un assoluto non oppressivo, espressione a livello istituzionale di valori quali libertà, rispetto, amore. Il diritto è libertà, rispetto, amore fatti istituzione. Ecco quanto di bello c’è nelle istituzioni.
Ma liberalismo e liberismo non sono omogenei, anzi sono contrari. Il liberalismo è la dimensione politica dell’universale, il liberismo è la dimensione economica del particolare. Il primo sostiene il diritto politico universale, il secondo l’interesse economico particolare. Il liberalismo salvaguardia la libertà di tutti, il liberismo consente la libertà di pochi perchè, dando la libertà a uno la toglie ad altri nove, e anzi finisce per contraddirsi perchè nel liberismo la libertà si converte in monopolio. Dunque il liberalismo di Ballerin non è un liberalismo dello stato minimo, che interviene meno possibile nella società per consentire, più possibile, il libero mercato. Lo stato deve occuparsi della società, della questione sociale, intervenire a favore dei più svantaggiati, degli ultimi, per correggere ingiustizie ed eccessive disuguaglianze, non dev’essere stato liberale aristocratico, che tutela gli interessi di pochi, ma stato liberale democratico, che guarda al bene di tutti, e non uno stato liberale avulso dalla società, ma uno stato liberale che intervenga nella società, uno stato liberale sociale, espressione non di un liberalismo liberista ma di un liberalismo sociale. Lo stato liberale di Ballerin è stato sociale, ossia stato di diritto che non è stato minimo.
Liberalismo e democrazia, pertanto, per Ballerin, non sono né incompatibili né in conflitto. Anzi il liberalismo deve farsi democratico e la democrazia deve farsi liberale. Il liberalismo rappresenta la supremazia del diritto, la sovranità della legge, la tutela della sfera privata di tutti, correggendo la democrazia là dove essa proclama la sovranità della maggioranza e non della legge. La democrazia, a sua volta, corregge il liberalismo là dove esso può essere rappresentanza politica di alcuni e non di tutti, e dove può accentuare troppo la libertà a scapito della giustizia sociale. Il liberalismo senza democrazia rischia di creare una libertà senza giustizia sociale, la democrazia senza liberalismo rischia di creare un’uguaglianza sociale senza libertà. La democrazia liberale è sintesi di libertà e giustizia sociale e la cultura democratico liberale non può essere che progressista e collocarsi nell’ambito della sinistra.
Dunque il modello a cui Ballerin guarda è lo stato liberal democratico moderno, il moderno stato sociale europeo, che rappresenta il vertice dell’evoluzione politica umana, culmine della storia per quanto riguarda lo sviluppo statale. Questa forma politica rappresenta il modo migliore di regolare i rapporti umani all’interno degli stati.
Ma il passo da compiere è adesso quello di portare tale forma all’esterno, ossia estendere il diritto, nella forma liberal democratica, anche alle relazioni internazionali, ai rapporti tra gli stati, i quali è necessario si sottopongano volontariamente a un diritto comune, alla sovranità di una stessa legge, realizzando il superamento della sovranità nazionale verso il federalismo, in modo che sia il diritto, pacificamente, e non la violenza e la guerra, tragicamente, a risolvere i diverbi tra gli stati.
L’obiettivo è costruire un unico governo mondiale, gli stati uniti del mondo, un organismo sovranazionale planetario, affinché il mondo sia sotto il potere della legge, sostituendo alla violenza il diritto, cioè la regolamentazione pacifica dei conflitti. Oggi la globalizzazione favorisce questo passo, mette l’umanità davanti a un passaggio storico decisivo. Per la prima volta i problemi di alcuni sono problemi di tutti. Certamente c’è già l’ONU, e l’Europa deve farsi paladina dell’ONU, ma evidentemente un’ONU che abbia i poteri necessari e possa diventare un organismo sovranazionale mondiale ancor più democratico e dotato del monopolio della forza.
In questo grandioso compito epocale, che ha come meta la realizzazione della kantiana pace perpetua, un ruolo di avanguardia spetta all’Europa. L’Occidente è l’Europa. L’Occidente è la dimensione del dubbio la quale porta al prevalere della condizione universale, politica, del diritto. Non è così per gli USA, che, pur essendo maestra di federalismo, rappresenta la supremazia dell’interesse economico particolare, il primato del liberismo. Né soggetto di questo grandioso processo può essere la Cina, potenza economica sì, ma illiberale, del tutto antitetica al principio del diritto. Dunque promotrice di un esperimento politico così elevato non può essere che l’Europa. Ma il primo passo da compiere è quello con il quale l’Europa deve abbracciare il federalismo, farsi federale, trasformando i diversi stati europei negli Stati Uniti d’Europa.
Tuttavia la lentezza, i ritardi, le resistenze, gli errori, con i quali si sta compiendo oggi l’unità europea, fanno pensare che la generazione che ne è attualmente protagonista sia inadeguata a compiere un passaggio storico così grande. Occorre dunque una nuova generazione, più giovane, che abbia la passione e lo spirito capaci di perseguire questo immenso obiettivo: costruire un federalismo europeo, come primo passo verso una federazione mondiale per realizzare una pace perpetua. La storia tende a questo, al futuro governo mondiale all’insegna del diritto.
Ora a me pare che il discorso di Ballerin si fondi sull’idea del primato della politica. È nella politica che si rivela l’uomo. La politica, cioè la dimensione del bene universale, è superiore all’economia, la dimensione dell’interesse particolare, e dunque l’unico rapporto che può esserci è che l’economia, l’elemento inferiore, si subordini alla politica, l’elemento superiore. La globalizzazione non è vista da Ballerin come il dominio dell’economia sfrenata ma come il sorgere dell’opportunità di vedere e affrontare globalmente i problemi del mondo come problemi comuni, di tutti, l’opportunità cioè di una grande politica. Oggi è il tempo del trionfale ritorno della politica, di una politica in grande. La politica, cioè la dimensione del diritto, delle regole, deve controllare, governare, l’economia, ossia un liberismo senza regole. Spetta alla politica stabilire dei limiti a un’economia senza limiti. E proprio l’incarnazione più alta della politica oggi, cioè un’Europa federale, è l’antitesi del liberismo. Il nostro tempo annuncia la fine, per il capitale, dei suoi giorni più felici, perchè prospetta la condizione in cui il capitale, per sua natura selvaggio, sarà domato dalla politica. È la politica che deve stabilire regole che impediscano al libero mercato di sfociare in un eccesso di ingiustizie e disuguaglianze. Lo stato di diritto, in difesa dei diritti di tutti, deve intervenire dove il libero mercato sconfina e diventa mercato troppo libero. Un mercato troppo o illimitatamente libero infatti, pensando a se stesso e non ai diritti delle persone, finisce per essere ingiusto. Lo stato sociale deve realizzare la sintesi tra economia di mercato e giustizia sociale.
Mi permetto a questo punto di fare qualche osservazione, suggerita da un libro così stimolante, come raramente capita di trovare, quale quello di Ballerin. Sono anch’io convinto che la politica, nella forma del diritto, dello stato di diritto, abbia raggiunto il suo vertice supremo, il punto di vista del bene universale, della sintesi di libertà e uguaglianza. Ma a mio parere l’economia, invece, nella forma del capitalismo, è ancora assenza di diritto, anarchia, cioè tirannia della legge del più forte, dimensione della giungla, rivolta all’unico fine del profitto privato. Ritengo infatti che non sia l’economia come tale ad avere la caratteristica, di essere finalizzata all’interesse particolare. Lo è stata ogni forma di economia fino ad oggi, e lo è anche, oggi e da sempre, il capitalismo, e ancor più il capitalismo globale. Se però l’economia avesse come fine non il profitto privato ma la soddisfazione dei bisogni di tutti, sarebbe un’economia volta all’universale.
Ma oggi la politica, nella forma del diritto, e l’economia, nella forma del capitalismo, sono essenzialmente opposte e quindi incompatibili, proprio perchè hanno due fini diversi: il diritto ha per scopo il bene universale, il capitalismo l’interesse particolare. Il diritto è la sovranità della legge, il capitalismo è anarchia, cioè l’assenza della legge. Il diritto tende alla pace mondiale, il capitalismo è guerra di tutti contro tutti e fonte di guerre, che oggi minacciano la distruzione mondiale. Nel diritto prevale appunto la forza del diritto, nel capitalismo il diritto della forza. Il diritto è tener conto dell’altro, il capitalismo è tener conto di sé. Il diritto è uguaglianza, il capitalismo è disuguaglianza. Il diritto è giustizia, il capitalismo è ingiustizia. Il diritto è libertà, limitata, e quindi reale, per tutti, il capitalismo è la libertà di pochi che impedisce la libertà di tutti. Oggi vediamo che il capitalismo, per espandersi e sostenere la concorrenza nel mercato globale, cerca di cancellare i diritti come un lusso che non è più possibile permettersi. 
Dunque esiste un’incompatibilità essenziale tra diritto e capitalismo. Essenziale vuol dire che certamente diritto e capitalismo possono coesistere, come di fatto fanno. Ma possono coesistere solo accidentalmente, e quindi temporaneamente. È come se due persone volessero andare a Madrid e a Berlino. Da Firenze, per esempio, potrebbero fare un pezzo di strada insieme fino a Milano, ma poi si dovrebbero dividere.
Questa incompatibilità essenziale non è tra politica ed economia come tali ma tra politica fondata sul diritto e capitalismo, e ciò vuol dire che, delle due l’una: o il capitalismo subordina il suo fine, particolare, al diritto, e allora non è più capitalismo. O il diritto piega il suo fine, universale, al capitalismo, e allora non è più diritto.
A me pare che uno dei problemi cruciali del nostro tempo sia proprio l’incompatibilità tra diritto, ossia politica in senso liberal democratico, e capitalismo. E che il fine debba essere non piegare il diritto al capitalismo ma il capitalismo al diritto, ossia non la politica all’economia ma l’economia alla politica. E tuttavia non nel senso di governare con le armi della politica il capitalismo, ma di superare il capitalismo in una direzione omogenea alla politica.
In questo senso quel problema si articola in due grandi obiettivi: il primo è il governo mondiale della politica, nel suo significato più alto, ossia l’estensione del diritto a livello planetario.
Il secondo è superare l’anarchia, ossia l’assenza di diritto, dell’economia capitalistica. Scopo del capitalismo è il profitto, a cui subordina ogni altro scopo, anche il diritto, anche la pace. È soprattutto per trarne profitti che si fanno le guerre. L’economia capitalistica è appunto lo stato di natura di Hobbes. Lo stato politico permette all’uomo di uscir fuori dallo stato di natura per quanto riguarda la politica. Ma il secondo grande obiettivo dell’umanità è oggi quello di uscir fuori dallo stato di natura anche per quanto riguarda l’economia. Il fine è fare del capitalismo diritto, ossia uscir fuori dal dominio della forza, del bellum, anche in economia, dopo esserne usciti in politica. Civiltà è superare la dimensione della forza come principio regolatore dei rapporti umani ad ogni livello della vita.
Certamente il diritto rappresenta la sintesi tra politica ed etica, ma il capitalismo è appunto l’economia senz’etica. Il capitalismo è la subordinazione dell’etica all’economia. L’obiettivo di superare il capitalismo è anche quello di realizzare una sintesi di economia ed etica rendendo la politica fondata sul diritto e l’economia orientata dall’etica finalmente compatibili.
Dunque quei due obiettivi spingono a compiere due operazioni diverse, in politica e in economia, una di estensione, l’altra di superamento, perchè, mentre in politica abbiamo trovato, a parere sia mio che di Ballerin, un principio assoluto, in economia, a mio giudizio, no. In politica si tratta di estendere il diritto al mondo intero. In economia si tratta di superare il capitalismo nel mondo intero. Piegare l’economia alla politica non vuol dire infatti governare il capitalismo con la politica ma superare il capitalismo secondo i principi universali della politica. E quando dico la parola politica la intendo qui, sempre, nel suo senso più alto, come attività volta a realizzare il bene di tutti, e non nel suo senso più basso, come attività volta all’arricchimento personale e all’interesse proprio.
Non c’è dubbio che oggi sia dominante l’idea di poter riuscire a governare l’economia con la politica senza cambiare essenzialmente l’economia, ossia l’idea che una politica liberal democratica, fondata sul diritto, possa domare, governare, orientare la libertà selvaggia del capitalismo globale. È questa in fondo l’ipotesi socialdemocratica, quella, una volta abbandonato il sociasismo, di restare nel capitalismo cercando di raddrizzarne le storture con lo stato sociale.
Mi pare tuttavia che questa ipotesi sia debole. Il capitalismo è per sua natura insofferente di limiti. Un capitalismo cui la politica mettesse dei limiti sarebbe limitato, e quindi più debole e perdente rispetto a un capitalismo senza limiti, illimitato. Il che fa pensare che esso non accetti spontaneamente di essere dominato dalla politica. Naturalmente si può sostenere che la politica sia più forte dell’economia e che la politica abbia la forza di costringere il capitalismo a limitarsi, quindi ad essere più debole. Ma che la politica sia più forte dell’economia è cosa assai problematica. Perchè la politica dovrebbe essere più forte dell’economia e non l’economia più forte della politica?
E soprattutto occorre rilevare che la politica stessa ha interesse a non limitare, cioè a indebolire, il capitalismo, giacché un capitalismo, cioè un’economia, debole, porterebbe alla debolezza dello stesso stato politico. Dunque l’ideale del primato della politica sull’economia è destinato a rovesciarsi nel primato dell’economia sulla politica, che è quello che, nel mondo globalizzato, sta avvenendo. La globalizzazione apre l’orizzonte ideale del primato della politica sull’economia ma ottiene la realtà del primato dell’economia sulla politica, dove una politica serva dell’economia rinuncia al diritto, ossia non è più politica. Purtroppo, nel tempo in cui diventa possibile la massima esaltazione della politica, stiamo assistendo alla sua mortificazione.
E dunque ci troviamo oggi in Occidente nella situazione in cui noi, paladini del diritto, siamo in grado di dire ciò che vogliamo in politica, ossia l’estensione del diritto al mondo intero, una federazione europea e poi mondiale che garantisca la risoluzione pacifica dei conflitti, con istituzioni sovranazionali dotate dei poteri necessari e rese possibili da una drastica limitazione delle sovranità nazionali, ma non siamo in grado di dire ciò che vogliamo in economia. In economia sappiamo solo ciò che non vogliamo, ossia non vogliamo il capitalismo, perchè antitetico al diritto, e non vogliamo nemmeno società socialiste o comuniste come quelle di cui abbiamo avuto o abbiamo esperienza nel mondo, perchè anch’esse antitetiche al diritto e a ogni libertà. L’89 ha cambiato il mondo perchè è la data simbolo che testimonia che l’unico grande progetto economico alternativo globale fin qui elaborato, quello socialista e comunista, ha fallito e oggi sembra non ci siano alternative al capitalismo. Ma quando non si vedono alternative noi occidentali, figli del dubbio e del senso critico, siamo chiamati a creare, a immaginare, a portare alla luce il possibile, a pensare l’invisibile. Tuttavia oggi non lo vediamo ancora, né si vede chi sia capace di indicarlo.
Concludo questi brevi pensieri, a questo punto del tutto personali, stimolati dalla lettura affascinante del libro di Ballerin, che, ripeto, considero un libro straordinario, la cui lettura è un’esperienza che apre la mente, rende le idee più chiare e fa bene a chi abbia la fortuna di viverla, dicendo che a mio parere il problema fondamentale del nostro tempo si potrebbe esprimere così: l’umanità, nonostante anche tanti tristi esempi negativi, è in politica immensamente più avanti che in economia e oggi assistiamo all’incompatibilità tra diritto ed economia capitalistica di fronte alla quale siamo in una situazione asimmetrica, possiamo dire ciò che vogliamo in politica, ma solo ciò che non vogliamo in economia. Ciò che vogliamo, ciò che non vogliamo.



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