Pietro Grossi, L’acchito, Sellerio, 2007


Il viandante dell’assoluto
di Paolo Vannini

A mio parere L’acchito di Pietro Grossi, pubblicato da Sellerio nel 2007, è un bellissimo romanzo di formazione, che descrive cioè le esperienze attraverso le quali il protagonista cresce, matura, si forma, in un viaggio che ha come guida la figura del padre.
C’è una struttura dualistica di tipo platonico del romanzo, un suo platonismo. Ci sono due mondi, il mondo del biliardo e il mondo fuori dal biliardo. Il biliardo è il mondo ideale, come dovrebbe essere, il non biliardo è il mondo reale, com’è. Il biliardo è un mondo, un mondo nel mondo, il mondo ideale dentro il mondo reale.
Cos’è per Dino il biliardo? Non è lotta con l’altro per vincere nella partita della vita, ma lotta con se stesso per realizzare col proprio gioco un ordine puro, perfetto, immutabile, geometrico. Il biliardo è una ragnatela di geometrie perfette. E’ un grande teorema di matematica. Ed è perciò verità, eternità, onnipotenza, com’è eternamente vero che un triangolo ha tre angoli e nessuno può smentirlo. Il biliardo è più potente degli dei, gli dei maligni, che non hanno potere di influenzarlo. E l’ordine che esso realizza è oggettivo, esiste indipendentemente dalla capacità soggettiva dei giocatori, e assoluto, valido in ogni luogo e in ogni tempo. E’ logica pura, dove c’è sempre una ragione che determina ciò che avviene. E’ il regno del determinismo, nel quale non esistono l’indeterminato, il caso, l’imprevedibile, il disordine, il caos, la sfortuna. Il biliardo ha cioè le caratteristiche del mondo delle idee di Platone.
Dino non è una persona comune, è un idealista, è animato da un bisogno di purezza e di assoluto.
Tuttavia egli abita il mondo ideale anche perché ne trae un vantaggio. Un mondo razionale può essere compreso dalla ragione. E se tutto ha una ragione, che è la causa che determina un effetto, conoscendo quella ragione è possibile prevedere l’effetto. E prevedere l’effetto significa tenerlo sotto controllo e poterlo dominare e così poter dominare l’angoscia suscitata dall’imprevedibile. Il libro rende esplicito il carattere protettivo del biliardo, che ha la potenza di difendere dall’angoscia.
Il biliardo rappresenta il mondo ideale, l’essere, salvo dall’imprevedibile, il non biliardo è il mondo reale, il divenire, esposto all’imprevedibile sempre.
E Dino conosce la potenza dell’imprevedibile. Un medico ha detto che la moglie Sofia non può avere figli, dopo che a lungo avevano cercato di averne. E questa sentenza di sterilità annuncia il dolore, per la morte del desiderio di avere un figlio, per la morte del figlio che avevano sognato.
Qualche giorno dopo Dino e Sofia decidono di viaggiare. Ma i loro viaggi sono solo sognati, sono viaggi ideali, non reali. Sofia li racconta nei suoi quaderni, dai quali Dino si sente come intimorito e ne resta alla larga. Non capisce il loro segreto. A mio parere il segreto dei quaderni è che quei viaggi hanno preso il posto del figlio non nato. Sono viaggi mai nati, come lui. Sono solo sognati, come lui. Dunque Sofia abita quei quaderni perché è l’unico modo che trova per stare col figlio non nato. Se quei viaggi stanno al posto del figlio, lo rappresentano, e stare con loro è un po’ come stare con lui. Ma c’è anche altro. I viaggi dei nostri sogni sono belli, sono viaggi perfetti, non deludono, mentre quelli reali sono esposti al rischio e alla delusione. Dunque rifugiarsi nei viaggi ideali è anche un modo per non fare mai un viaggio reale. C’è affinità tra i quaderni di Sofia e il biliardo di Dino. Entrambi sono mondi ideali che servono a proteggere dalle ferite del mondo reale.
Ma Dino non è una persona comune, ha dei talenti, e coraggio. Così varca la soglia proibita che introduce nell’Olimpo dei giocatori di biliardo e va dal re degli dei, Zeus in persona, il dio che batte ogni dio, alla ricerca di un maestro. Il maestro è Cirillo, guida, più grande, figura di padre. E il re del mondo ideale agli occhi di Dino possiede la risposta a tutte le domande e, chiedendogli di imparare l’arte del biliardo, si aspetta da lui la risposta a tutte le domande, quella che svela il senso di tutto.
Il maestro sottopone l’allievo a un vero processo di iniziazione, però non dà risposte ma assegna un compito, con un insegnamento che ricorda quello di un maestro orientale. Non a caso il libro accenna esplicitamente all’Oriente. Insieme al platonismo c’è una vena orientale, di saggezza orientale del libro.
Così il compito assegnato da Cirillo avrebbe potuto darlo un maestro zen: torna da me quando con un tiro sai far tornare la palla all’acchito tutte le volte. E’ un insegnamento importante, che fa apprendere dei valori: non pensare di andare da qualcuno e ricevere in dono, senza sforzo, la bacchetta magica che risolve tutto. Nulla si ottiene senza un duro lavoro. E nessuno può farlo al tuo posto. Lo devi fare da te. La ricchezza è il prodotto del proprio lavoro. E richiede umiltà, pazienza, fiducia, interesse, controllo, conoscenza di sé. Quando Dino resta per ore a tentare di far tornare la palla all’acchito, sta formando dentro di sé questi valori.
L’acchito è l’inizio, il principio, e il principio è puro. E’ il centro, il proprio vero sé, più autentico, più profondo. E’ la quiete, ciò che sta fermo, stabile in noi, che non può essere distrutto. Ma il maestro dice che non si può restare all’acchito, che restando chiusi in sé non c’è vita, c’è la palla immobile, l’immobilità della morte. E allora la formazione e la crescita sono il movimento con cui si esce dall’acchito, ossia da sé, e ci si allontana da sé verso l’altro per poi tornare a sé cambiati, arricchiti, formati, da ogni nuovo tiro, da ogni esperienza di confronto con l’altro. Andare lontano vuol dire tornare. Come l’esploratore che si allontana da casa per compiere le sue escursioni e poi ogni volta torna a casa.
Il maestro insegna che la crescita è il prodotto di una propria costruzione. Ma Dino è un buon allievo e ogni giorno costruisce coi ciottoli la strada. La strada è la strada della propria vita, e i ciottoli sono le pietre che ognuno deve mettere per costruire nella vita. Quanti ciottoli ci vogliono per fare una persona? Quante pietre bisogna mettere per costruirsi una personalità, per diventare non un fabbro o un falegname ma un uomo, cioè un essere che ha un valore perché dà un senso alla propria vita, quanti per raggiungere quei valori che sono rappresentati dal biliardo? Quanti ciottoli ci vogliono per fare una persona è come dire quanti tiri ci vogliono per fare ogni volta l’acchito? A quella domanda Cirillo risponde ce ne vogliono parecchi.
I ciottoli, pietre lisce, levigate, ricordano un po’ le palle da biliardo. E il braccio e la mano, che con cura li dispongono al posto giusto, ricordano quel prolungamento del braccio e della mano che è la stecca, che dispone le palle al posto giusto. Ma tra il biliardo e la strada c’è una differenza che turba Dino perché lo mette di fronte a qualcosa di nuovo. I ciottoli non possono essere posti secondo uno schema logico, vanno messi a occhio. Dunque bisogna possedere questo occhio, un terzo occhio. Questo occhio è l’intuizione. Tutti i ciottoli sono diversi, per forma e grandezza, e per metterli nel giusto ordine e nella giusta posizione non basta la logica, ci vuole intuizione, bisogna sviluppare il terzo occhio, quello che ha il padre e che fa sì che, senza spiegarlo, si sappia che ogni sasso sta lì, in quel punto lì, in quel modo lì, perché ha un senso che stia lì. In ogni ciottolo è racchiuso un granello di senso, di cura, di pazienza, di affetto, quei valori che Dino mette in ogni ciottolo quando lo pone proprio lì. E allora in ogni ciottolo c’è un po’ d’anima. Ogni ciottolo ha un’anima. E l’insieme dei ciottoli forma un’anima sola che rende una strada di ciottoli una strada viva.
L’asfalto invece uccide la vita. E’ la morte dei ciottoli, l’indifferenziato, ciò che cancella le differenze e l’individualità di ogni ciottolo, che li seppellisce. L’asfalto è la tomba dei ciottoli. La morte dell’affettività. E’ il cancro che uccide. I ciottoli sono la costruzione, l’asfalto è la distruzione.
E poi è il vomito, la bava del diavolo, il principio del male, opposto a quello divino, olimpico, del biliardo. L’asfalto è il nero, l’oscuro, la notte, il contrario del chiarore in cui le cose si mostrano con evidenza nella verità, e di Sofia, sapienza, in cui risuona il senso di faos, luce. L’asfalto è la corruzione, la mazzetta, il potere, il denaro, la freddezza della macchina, lo sporco, il fango del mondo reale, l’opposto della purezza del mondo ideale. Qui Dino fa l’esperienza del male.
E l’esperienza del male è presto l’esperienza dello scontro, con la quale Dino dice di no. Dino lascia il lavoro perché dice no al mondo dell’asfalto, seguendo l’esempio di Duilio, altra figura di padre. E dice di no anche aiutando il Biondo a salvarsi, cioè facendosi complice di quel no che il Biondo dice non a parole ma con le bombe.
Tuttavia la vita insegna anche che l’imprevedibile non è sempre amaro. Sofia aspetta un figlio. E allora il maestro rivolge Dino a una nuova esperienza. La purezza deve entrare nel mondo. Dino gioca a biliardo per soldi. Il mondo ideale deve scendere a patti col mondo reale e perciò sporcarsi. Dopo aver vinto il torneo Dino si sente sporco. Ma il maestro insegna che restando in sé, nel mondo ideale, non si cresce. Solo confrontandosi con gli altri Dino può prendere coscienza della sua abilità, della sua forza. Deve combattere, sporcarsi le mani, affrontare l’altro. E così il viaggio diventa eroico. E’ la strada eroica della sfida, dello scontro e della vittoria.
Ma quando, con l’attesa del figlio, sembra disegnato un nuovo ordine di quiete e di gioia, la chiave dell’imprevedibile interviene ancora a tritare i fili di quella trama e stavolta ad aprire la porta su uno scenario nel quale Sofia è morta, rivelando che non esiste ordine stabile e che, se nel mondo ideale del biliardo non entra la sfortuna, nel mondo reale del divenire, al contrario, la fortuna si rovescia sempre in sfortuna. Sofia fa così il suo primo viaggio, da sola, verso una terra che non è ricoperta d’asfalto.
Con la morte di Sofia Dino fa anche le esperienze dell’aggressività e della colpa. Da un lato sentiamo una sua rabbia verso Sofia. Quando una persona cara muore il primo impulso è pensare: sei stata crudele a lasciarmi, mi hai abbandonato, mi hai lasciato nei guai e mi hai molto ferito. Ma dall’altro lato c’è aggressività verso di sé nella forma della colpa. Dino pensa è colpa mia, io non c’ero, avrei potuto salvarla, la morte di Sofia è un mio tiro sbagliato. E al medico che gli dice anche lei è una brava persona, Dino risponde non lo so.
Insieme alla morte, c’è l’evento della nascita, ma anche qui è un imprevisto. Dino si aspettava un maschio, invece è una femmina. La chiama Grecia, d’istinto. Come la terra dalla quale viene Sofia, il nome della madre. Grecia come l’inizio, questa volta, dell’Occidente, dove nasce la filosofia, e la prima grande riflessione sull’essere e il divenire, sul mondo ideale e il mondo reale, dove nasce Platone
E’ per Dino il momento della disperazione. E’ solo, deve allevare una figlia e non sa come fare. Lui, un idealista, un artista del biliardo, deve affrontare problemi pratici più grandi di lui. Allora gli appare amara la vita, amica la morte e dolce il suicidio.
Ma Dino non è una persona comune. Ha una forza dentro di sé, e una guida, il padre, che lo stimola all’azione. Mette in ordine la casa e lo stanzino del biliardo, cioè comincia a rimettere ordine nella sua casa interna, nella sua persona, nella quale il terremoto dell’imprevedibile aveva seminato il caos. Il punto più commovente è quando, dopo esser riuscito a farsi un uovo al tegamino, Dino dice ce la posso fare.
E anche Sofia non è perduta per sempre. E’ mantenuta dentro come una parte interna importante alla quale fare ricorso per avere aiuto e crescere insieme Grecia. Se Sofia adesso è muta, Dino le dà voce e la fa parlare alla figlia. Comincia a leggere a Grecia i quaderni di viaggi, inizia a raccontarle della madre facendole ascoltare le sue parole e così rendendo viva lei che è morta. E questo rivela che dopo l’aggressività e la colpa, c’è stata un’altra esperienza, quella del perdono. Dino ha perdonato Sofia per aver fatto il suo viaggio da sola e ha perdonato se stesso per non essere stato presente quando lei si preparava a partire.
Ma qual è il punto d’arrivo del viaggio di Dino? Il punto d’arrivo è capire che non c’è punto d’arrivo. Capire che il mondo ideale, l’assoluto, non esiste, è appunto solo un ideale, una meta cui tendere. E tuttavia esso è decisivo per il modo in cui viviamo. L’assoluto come ideale permette infatti di non fermarsi mai a nessuna stazione della vita, la quale non soddisfa appunto perché non è l’assoluto. Consente cioè di sentire l’insoddisfazione di ogni tappa. E’ l’ideale che spinge ad andare avanti e riappare sempre come nuovo stimolo al movimento. Dunque è proprio l’assoluto che garantisce l’infinito viaggiare, cioè il divenire. Ma se davvero raggiungessimo l’assoluto, il totale appagamento, la perfezione, la piena verità, tutto finirebbe, sarebbe davvero la fine del viaggio, cioè del divenire, della vita.
Una domanda: che ci fa, nel mondo delle entità pure ed eterne, Arlecchino? Arlecchino è il divenire. E’ il principio di indeterminazione, l’opposto del mondo delle idee, non l’ordine ma il caos, la molteplicità dei desideri e delle passioni, l’irrazionale. E’ la potenza del fiume mutevole, caotico e assurdo della vita, che in forma di stecca penetra il mondo ideale, lo feconda e lo rende vivo. Il maestro, mettendo nelle mani dell’allievo proprio Arlecchino, gli insegna che il mondo delle idee, senza Arlecchino, è freddo, falso, morto. La verità e la purezza vanno riscaldate coi mille colori mutevoli, cangianti, delle passioni umane, altrimenti restano stelle fredde. Arlecchino, cioè le nostre passioni, è la nostra stecca, la nostra potenza.
Allora Dino il suo viaggio l’ha fatto. Non ha mai fatto viaggi perché il senso della sua vita era fare il viaggio, quello della propria crescita.
Dino è una figura di moderno Wanderer, un viandante che fa della vita uno streben, un tendere all’assoluto. Un assoluto irraggiungibile, che si sposta con noi, come l’orizzonte, ma tendendo al quale possiamo fare sempre più strada, nel mare dell’esistenza. Il senso della vita è vivere nel senso dell’assoluto. A mio parere questo è un libro romantico. C’è in esso un motivo kantiano romantico. Attraverso le esperienze di fiducia, pazienza, cura, amore, logica, intuito, dolore, morte, nascita, aggressività, colpa, tentazione di suicidio, perdono, onnipotenza, impotenza, purezza, sporcizia, Dino ha compiuto il viaggio con cui si è formato, è maturato, è cresciuto, ha trovato, tra l’onnipotenza del mondo ideale e il senso di impotenza causato dalle ferite del mondo reale, la strada della potenza.
Ma nel libro è decisivo che questo sia stato possibile grazie alla presenza di una figura interna che lo ha sostenuto e guidato, cioè la figura del padre. Che Cirillo sia figura paterna è confermato da un tema problematico del libro che può essere espresso dalla domanda: perché Dino non batte mai Cirillo? Non vincendo mai, tra l’altro, Dino non si appropria mai della stecca Arlecchino, che Cirillo gli donerebbe, la prima volta che l’allievo lo battesse. Eppure si capisce chiaramente che Dino potrebbe vincere e Cirillo stesso è il primo a meravigliarsi di non essere mai stato sconfitto. A mio parere la risposta può essere solo questa: Dino non vince perché non vuole vincere. E non vuole vincere perché vede in Cirillo la figura del padre e interpreta una propria vittoria come atto aggressivo, quello di spodestare il padre dal trono e prenderne il posto, e quello di togliergli la stecca facendola propria, cioè, in sostanza, castrandolo. Non vince perché per lui vincere vuol dire castrare il padre e perdere significa invece difendere il padre dalla propria aggressività.
 Qual è dunque l’insegnamento del padre? Assegnando il compito di tirare la palla in modo tale da tornare sempre all’acchito, il padre indica un assoluto ma intende dire vivi come se tu potessi raggiungere l’assoluto, gioca come se tu potessi portare ogni volta la palla all’acchito. L’assoluto non lo puoi abitare. Puoi abitare solo il mondo reale, che diviene, e non è l’assoluto. Ma vivi il divenire, e le sue delusioni, come se tu potessi raggiungere l’assoluto. Se pensi di averlo raggiunto sei fritto, ti sei già fermato. Il senso ultimo dell’insegnamento del padre è che il mondo ideale non può essere il rifugio che esclude e protegge dal mondo reale, ma la meta del mondo reale che permette di viverlo come trasformazione e come crescita.
Gioca come se tu potessi fare tutte le volte il tiro perfetto. Vivi come se tu potessi diventare una persona perfetta. In questo modo, sotto la guida della parola del padre, Dino non è diventato perfetto ma è diventato un grande giocatore di biliardo e una bella persona.
Da un punto di vista speculativo l’interesse del romanzo è che esso da un lato, in sintonia con la tendenza di fondo del pensiero contemporaneo, rappresenta il protagonista come un viandante del divenire, dall’altro lato, in controtendenza rispetto al pensiero contemporaneo, che vede nell’assoluto la negazione del divenire, suggerisce che l’assoluto reale è sì la negazione del divenire, ma l’assoluto ideale è anzi, al contrario, la condizione stessa del divenire. L’originalità sta nella sintesi tra un tema platonico, l’affermazione dell’assoluto, uno nietzschiano, la negazione dell’assoluto, e uno kantiano romantico, la negazione dell’assoluto come reale e però insieme l’affermazione dell’assoluto come ideale quale condizione del divenire.                                                                                                    




     

 
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